Bambini e nuovi media: contenuto al centro

Bambini e nuovi media: contenuto al centro Due giorni fa sull’app blog del Guardian Stuart Dredge ha contribuito con un interessante post al dibattito che dilaga in rete sull’utilizzo di smartphones e tablet da parte dei bambini. Come abbiamo segnalato anche noi in una notizia di qualche giorno fa, molti educatori lamentano infatti come la capacità di lettura degli studenti sia spesso compromessa dall’abitudine a una comunicazione veloce e per immagini. Dredge ha però affrontato il tema da un punto di vista originale, guardando non tanto al mezzo e alle sue potenzialità tecnologiche ma ai contenuti che i nuovi media mettono a disposizione. Le app di successo sono quelle che offrono ai bambini gli stessi ingredienti dei libri cartacei: una buona storia e personaggi ben costruiti. Inutile quindi, sostiene il giornalista del Guardian, demonizzare i tablet, che rappresentano una modalità di racconto non così rivoluzionaria come si potrebbe pensare. Una modalità destinata non a soppiantare la lettura tradizionale, ma ad affiancarla, dato che “i bambini amano le buone storie e i personaggi riusciti, che siano sullo schermo o su una pagina stampata”.

Il fatto che i nuovi mezzi digitali non abbiano una portata rivoluzionaria è discutibile, perché il modo in cui i nostri figli apprendono è cambiato rispetto al nostro in maniera irreversibile. La lettura è diventata un’attività frammentaria, come la scrittura, disseminata tra vari media ed espressione di un pensiero simultaneo, con un cambiamento che è forse paragonabile a quello che avvenne tra medioevo ed età moderna con il passaggio dalla lettura ad alta voce a quella silenziosa. Henry Jenkins, responsabile del programma di studi sui media al MIT, in uno saggio su media digitali e apprendimento ha sottolineato come in una società dominata dalla rete le competenze che i ragazzi devono sviluppare includono abilità “sociali” acquisite attraverso la collaborazione e le relazioni con gli altri. Che, sottolinea Jenkins, non vanno a sostituire le competenze tradizionali, ma forniscono nuovi supporti e, inevitabilmente, cambiano il rapporto con la lettura e la scrittura, così come l’avvento della stampa ha cambiato il rapporto dell’uomo con la parola scritta. A questo proposito, leggendo gli anatemi lanciati contro telefonini e tablet, rei di disabituare i ragazzi alla cultura e all’approfondimento, viene in mente quanto scrisse Baricco su “La Repubblica” nel 2010, in un sequel di un pezzo dedicato a “I Barbari” apparso su Wired: “…uno dei traumi cui la mutazione ci ha sottoposto è proprio il trovarsi a vivere in un mondo privo di una dimensione a cui eravamo abituati, quella della profondità […].  Non era un modo idiota di leggere le cose, ma ora sappiamo con una certa esattezza che era un modo miope: scambiava l’abolizione della profondità con l’abolizione del senso. Ma in realtà quello che stava accadendo, tra mille difficoltà e incertezze, era che, abolita la profondità, il senso si stava spostando ad abitare la superficie delle evidenze e delle cose. Non spariva, si spostava. La reinvenzione della superficialità come luogo del senso è una delle imprese che abbiamo compiuto: un lavoretto d’artigianato spirituale che passerà alla storia”.

Chi indica i nuovi media come fonte di tutti i mali è come quell’uomo che guarda il dito puntato e non vede la luna. Il problema attuale sta semmai nel fornire ai giovani gli strumenti critici per orientarsi in un universo molto più variegato e complesso rispetto a quello a cui eravamo abituati. E sta anche – come sottolineava giustamente Dredge – nei contenuti; nel fatto cioè che i contenuti fatichino a trovare forme nuove, adatte ai nuovi supporti. Spesso le app sono una semplice replica dei libri stampati o sono così infarcite di virtuosismi tecnologici da distrarre il bambino dalla storia. E nel caotico mercato delle applicazioni a vendere sono i prodotti legati ad un brand conosciuto, mentre ottime produzioni di editori indipendenti faticano ad emergere. Ma questa è un’altra storia.