Perché insegnare ai bambini a programmare?
Lo scorso settembre, in occasione della tre giorni Todi Appy Days abbiamo contribuito a una riflessione sulle applicazioni dedicate ai bambini in età scolare nel panel “Crescere nell’era digitale“. L’offerta di contenuti digitali multimediali si riduce al crescere dell’età dei piccoli user, ma c’è un’importante area di applicazioni loro rivolte: le app per imparare a programmare. Sviluppate per tablet o derivate da preesistenti web application, insegnano ai bambini a usare in modo ludico il codice non come testo scritto ma sotto forma di blocchi visuali predefiniti, da collocare in sequenze logiche.
Lo scopo di app come Hopscotch o Lightbot e di programmi come Scratch, Blockly e Tynker è di dare ai bambini uno strumento semplificato per imparare a creare da sé animazioni, app e videogiochi, in un crescendo di complessità. Il successo di questi tool è ormai noto, anche grazie all’azione di movimenti come CoderDojo, che – nato in Irlanda nel 2011- è approdato in Italia nel 2013 e vanta ora sedi diffuse su tutto il territorio nazionale.
La necessità di insegnare il coding ai bambini è ormai avvertita anche a livello istituzionale. Il testo La Buona Scuola, che contiene le linee guida per la prossima riforma della scuola italiana, afferma infatti che “serve spingere più in la? la frontiera dell’alfabetizzazione, potenziando la conoscenza delle lingue straniere, del digitale, dell’economia” ed è necessario “introdurre il coding nella scuola italiana a partire dalla primaria“.
Perché i nostri bambini devono imparare a programmare?
Gli educatori e programmatori quando spiegano i vantaggi e le opportunità che il coding offre ai bambin vanno oltre la considerazione che possano diventare in futuro bravi programmatori. Mitch Resnick, uno degli svilupppatori di Scratch (il software di riferimento per la programmazione visuale, nato nel 2006 nel Media Lab del Mit di Boston) spiega con molta convinzione che i bambini devono imparare a creare attraverso le tecnologie digitali, e non solo a interagire con esse. Ecco come illustra il proprio lavoro nella TED Conference Let’s teach kids to code del 2012, spiegando come i bambini possano diventare protagonisti di un processo creativo utilizzando un nuovo e potente linguaggio. E finire così per crescere anche nella propria autostima:
Ma non è solo una questione di nuovi linguaggi e creatività. Come spiega Barbara Laura Alaimo, pedagogista e co-founder di Coderdojo Milano, al centro dell’attività di insegnamento del movimento non c’è solo il coding, ma anche lo sviluppo della capacità di ascolto, del rispetto e della collaborazione tra pari.
“Due sono i messaggi che i mentor delle nostre palestre di coding passano ai piccoli allievi – spiega – Il primo è Chiedi a tre poi chiedi a me!, ovvero: se non riesci a fare una cosa chiedi ai tuoi vicini, questo per incentivare i bambini ad aiutarsi a vicenda. Il secondo è A Coderdojo si può copiare!, perché non c’è competizione tra chi partecipa a una classe di coding, anzi, ci si può alzare e prendere spunto da quello che fanno gli altri. Del resto il programma che usiamo, Scratch, è open source e i progetti che i bambini pubblicano nella gallery online sono aperti, quindi modificabili e ottimizzabili. I bambini collaborano volentieri e trovano il tutto molto divertente. Lo scopo non è arrivare a premiare il progetto “più bello”, ma imparare a usare un certo tipo di pensiero e certe abilità sociali”.
Il pensiero computazionale
Cosa sia e come si sviluppi in concreto il cosiddetto pensiero computazionale ce lo spiega Caterina Moscetti, maestra elementare e champion di un Coderdojo a Sigillo, in provincia di Perugia: “Praticare coding attiva molte funzioni cognitive che vanno al di là dell’acquisizione della competenza tecnica in senso stretto. Programmare, infatti, sviluppa competenze logiche, aumenta la capacità di risolvere problemi in modo creativo allenando alla soluzione di compiti complessi. Il coding concorre allo sviluppo del pensiero computazionale, che richiede una pianificazione di passi da svolgere, la coerenza tra esecuzione e pianificazione, il controllo della qualità di istruzioni attraverso le attività di debug”.
La sua classe, ci racconta poi Caterina, sta mettendo in pratica nell’ora di tecnologia la sperimentazione proposta da La Buona Scuola. Attraverso il portale del MIUR programmailfuturo.it (che rimanda al sito di fruizione code.org, lo stesso utilizzato negli Stati Uniti ma tradotto in italiano) i suoi alunni di quarta seguono il Percorso introduttivo di informatica per scuole elementari e medie inferiori. Quello che lei sta osservando è che molti bambini vanno avanti da soli, cercano le soluzioni e ragionano, a volte anche a casa, gestendo in maniera autonoma i problemi che incontrano e i tempi. Un alunno le ha infatti riferito: “Adesso non sono riuscito, ci sto pensando e presto troverò la soluzione”.
In questi percorsi, infine, si sviluppano competenze digitali più allargate, trasversali alle altre discipline, come per esempio il concetto di lavoro online o in locale, come quelli di password e username.
Sono del resto competenze, quelle digitali, considerate chiave nelle indicazioni nazionali per il curriculum scolastico. E forse vale la pena, anche per i genitori, provare a scoprire cosa faranno prossimamente i loro figli a scuola su tablet e computer.
Fonte foto: Caterina Moscetti