Cyberbullismo e rischio devianza
Ieri, presso la Sala della Comunicazione del Ministero dell’Istruzione, si è tenuta la Conferenza internazionale “Cyberbullismo e rischio di devianza, strategia di prevenzione e interventi mirati”.
Nel corso della giornata, introdotta dal Sottosegretario all’Istruzione Marco Rossi Doria, sono state presentate le best practices elaborate nell’ambito del Progetto europeo “Tabby in Internet”, approvato nel quadro del programma Daphne III (2007-2013), finalizzato a prevenire e combattere ogni forma di violenza, sia nella sfera pubblica che in quella privata, e a proteggere le vittime e i gruppi a rischio.
Un tema, quello del cyberbullismo, che la cronaca riporta al centro della discussione. E che le ricerche dipingono chiaramente come uno dei rischi maggiori di un adolescente che inizia la sua vita digitale. Secondo i dati diffusi nel convegno, uno studente italiano su quattro compie o subisce atti di prevaricazione via web: il 26% di ragazzi ne è vittima, mentre il 23,5% si definirebbe cyberbullo.
LE PARTICHE PIÙ DIFFUSE. I bulli digitali sono soprattutto studenti maschi, anche se, soprattutto in Nord America, si sta verificando una crescita del fenomeno anche tra le ragazzine (+3%). La ricerca condotta su 2.419 adolescenti dall’Osservatorio Open eyes – di cui fanno parte oltre al Miur anche l’associazione ChiamaMilano, l’Istituto Niccolò Machiavelli, il dipartimento di Psicologia dell’Università di Napoli – arriva a stilare una top-ten delle persecuzioni online. Tra le pratiche di cyberbullismo più diffuse spiccano i messaggi violenti o volgari (il cosiddetto flamming, commesso dal 17,8% dei maschi e l’8,7% di femmine), la denigrazione che porta a diffondere in rete o via sms contenuti falsi e offensivi per danneggiare la reputazione (10,2% dei ragazzi e 6,9% delle ragazze) e il furto di identità, ovvero la creazione di un profilo fittizio con il nome della vittima per danneggiarla (6,2% degli studenti e 4,1% delle studentesse). L’8,4% dei cyberbulli (3,8% delle cyberbulle) pratica, invece, l’esclusione della vittima dai gruppi di amici. Un’immagine di una campagna anti bullismoUn’immagine di una campagna anti bullismo
INUTILE VIETARE L’ACCESSO ALLA RETE . L’80,5% dei ragazzi italiani usa la Rete per comunicare, il 52,3% per fare surfing, per navigare qua e là sul web, il 40,5% per giocare, il 33,3% per studiare, il 18% per conoscere nuove persone, l’8,5% per progettare siti. «Se gli educatori e i genitori pensano di ridurre il cyberbullismo semplicemente bloccando il computer sbagliano – assicura Chaterine Blaya, responsabile dell’Osservatorio europeo della violenza a scuola – Sorvegliare e limitare l’uso di internet, con proibizioni e divieti, ottiene proprio l’effetto contrario: non si riducono gli episodi di persecuzione, né le ore davanti al pc o allo smartphone». Più utile, invece, insegnare ai ragazzi le potenzialità e i rischi dei diversi dispositivi e far crescere le loro capacità digitali: «Solo così potranno, eventualmente, difendersi – nota Blaya -. Non solo: aumentando la loro consapevolezza aumenterà anche il numero dei ragazzi che chiede aiuto. Oggi, in tutta Europa, solo il 7% delle giovani vittime di cyberbullismo ha informato insegnanti o genitori».
ITALIA MEGLIO DEL RESTO D’EUROPA. Nelle statistiche europee di ragazzi che subiscono bullismo, l’Italia è ai livelli più bassi. In media il 19% degli adolescenti nel Vecchio Continente è stato vittima di bullismo (il 6% di questi episodi è avvenuto è avvenuto online). In Italia le percentuali sono rispettivamente 11% e 2%. In Francia, invece, i bulli sono il 26% (di questi il 7% agisce sulla rete) e ciò indica una maggiore aggressività del fenomeno Oltralpe. Va molto peggio nei paesi dell’Est: in Estonia il 43% degli studenti è vittima di bullismo (di questi, il 14% è vittima di cyberbullismo), mentre in Romania le percentuali scendono di poco (41% e 13%).
COINVOLTI ANCHE I BAMBINI PICCOLI. «Le nostre ricerche dimostrano che i bulli cronici, quelli più violenti e seriali, soffrono di ansia, depressione e spesso anche di dipendenze da droghe e alcol» spiega Raymond Corrado, docente dell’università canadese Simon Fraser. Gli studi riguardano anche bambini molto piccoli: «Abbiamo riscontrato atteggiamenti aggressivi anche in bambini di 3-5 anni. Si parla di morsi, spinte e botte ben al di là dei livelli normali. Se vengono sgridati poi, non mostrano alcuna emozione: non rispondono alle punizioni, non mostrano empatia. Rispondono solo se vengono premiati e questa può essere la chiave per agire».