Videogiochi: meno panico, più confronto
In Italia videogioca più di un terzo della popolazione compresa tra i 6 e i 64 anni. Si tratta di circa 15 milioni e mezzo di persone, di cui il 56% uomini e il 44% donne. Sono i dati riportati nell’ultimo rapporto IIDEA, che descrivono il videoludico come fenomeno mediale di massa entrato ormai nella quotidianità di milioni di italiani. Eppure, alle spalle di questo successo di pubblico, da decenni si svolge un acceso dibattito relativo agli effetti dei videogiochi sui comportamenti degli utenti, dibattito spesso così polarizzato tra detrattori e sostenitori da rendere difficile una comprensione serena del nuovo medium e del suo linguaggio.
La nostra impressione, però, è che – complice la pandemia – qualcosa stia cambiando nel “percepito sociale” dei videogiochi e che lo sguardo su di essi si stia ampliando e sfaccettando. La diffusa modalità di gioco multiplayer online (che ha consentito di restare in contatto con gli amici durante le fasi più dure dei lockdown), i visitatissimi canali di streamer e youtuber appassionati di videogames, i tornei di esports che diventano momenti aggregativi e le serie tv nate da titoli videoludici – che recuperano e diffondo presso il grande pubblico l’estetica di questo medium – sono tutti elementi che stanno contribuendo a far evolvere l’opinione sui videogiochi. L’adozione di nuovi punti di vista viene confermata anche da iniziative che li osservano come fenomeno culturale di massa e non solo come campo di indagine psicologica. Recentemente sono state infatti organizzate mostre tematiche, come Videogames! a Triste o GameGround a Bolzano, ed è stata lanciata la rivista culturale KUMA.
Per trovare conferma a questa nostra impressione, abbiamo parlato con Viola Nicolucci, psicoterapeuta che da anni si occupa di videogiochi e nuove tecnologie e del loro impatto sulle persone, autrice di Game Hero. Viaggio nelle storie dei videogiocatori (Ledizioni, 2021). Il suo lavoro di ricerca e divulgazione mette infatti in discussione molti dei pregiudizi e dei luoghi comuni diffusi su questo medium, per offrire agli educatori prospettive utili a una reale comprensione di ciò che i videogiochi rappresentano nella vita di tantissime persone, di tutte le generazioni. Libri come il suo Game Hero, ma anche Vivere mille vite di Lorenzo Fantoni e l’autobiografia Io sono Pow3r, affrontano il tema del videoludico in una nuova prospettiva, per descriverne l’impatto culturale ed esistenziale sulle ultime generazioni.
D: Insomma Viola, possiamo pensare che la fase di “panico morale” che spesso accompagna la conversazione su questo medium inizi a rientrare?
R: È stato fatto tanto lavoro in Italia e a livello internazionale per cercare di ridimensionare la rappresentazione negativa che affligge questo medium. A tratti vediamo ancora manifestazioni di panico morale che toccano social media, videogiochi e varie espressioni della cultura nerd e geek, ma è anche vero che ci sono sempre più persone consapevoli e che sanno argomentare riguardo ad esse. Il pubblico sta reagendo in modo meno impulsivo e sta imparando a confrontarsi anche con chi porta posizioni polarizzate. Per esempio, lo scorso aprile il senatore Andrea Cangini è intervenuto nella trasmissione Speciale TG1 in occasione del lancio del suo libro Coca Web. Una generazione da salvare’ in cui, col supporto di psicologi, neurologi, pedagogisti e antropologi, indaga l’impatto delle nuove tecnologie sulla salute dei giovani. Nel servizio si è parlato di disagio giovanile mettendolo in relazione ai diversi tipi di media, ma è stata fatta molta generalizzazione, senza presentare dati e riferimenti precisi. Il pubblico se ne è accorto e quindi si è riversato in rete per cercare il contraddittorio assente nella trasmissione, ma – e questa è la cosa interessante – la discussione ha assunto toni più moderati rispetto al passato. Tanti Youtuber e streamer hanno pubblicato video reaction a commento del servizio, ma hanno usato perlopiù toni distesi, anche quando hanno espresso la propria frustrazione ma senza trascendere.
Che ruolo ha giocato la pandemia in questo cambio di percezione del videoludico?
La percezione generale del potenziale positivo e costruttivo delle nuove tecnologie è cambiata soprattutto nel periodo immediatamente successivo alla prima ondata della pandemia. La stessa Organizzazione Mondiale della Sanità in quel momento ha fatto una lettura diversa delle tecnologie e dei media e questo è accaduto anche nelle famiglie e nella scuola. Passata l’emergenza più acuta, la tendenza è stata quella di tornare alla vecchia narrativa, quella che contrappone vita naturale e all’aperto e impiego di tecnologia, però indubbiamente un po’ più di esperienza l’abbiamo maturata. Per esempio, ci sono molti più autori – impegnati nel campo dell’educazione e della psicologia – che cercano di cambiare la conversazione intorno alla didattica a distanza, cercando di equilibrare gli aspetti positivi e di non focalizzarsi solo sul fatto che abbia coinciso con un momento di isolamento sociale per i minorenni.
Quanto al ruolo socializzante dei videogiochi era già presente nella vita dei più giovani ben prima della pandemia. Non in tutte le realtà italiane ci sono spazi di socializzazione abitabili dai ragazzi e tanti hanno traslocato online in ambienti multiplayer. Durante la pandemia questa tendenza si è accentuata. Si è rilevato a livello scientifico (purtroppo in una pubblicazione che ancora non è uscita) che il trend del gaming è andato in parallelo con l’intensità del virus e delle misure per contenerlo, con un’impennata quindi nel primo lockdown, un calo estivo e una nuova crescita autunnale. Nel periodo di fase acuta il multiplayer online è stata un’occasione unica e ha dato vita anche a situazioni molto creative, di cui ho raccolto le testimonianze, come nonni che hanno giocato online con i nipoti o mamme che portavano i bambini piccoli nel parco virtuale di Animal Crossing. Ma in presenza di alternative possibili, la presa del videoludico è diminuita e si è tornati a modalità di incontro nel reale.
E il ricambio generazionale? I videogiocatori degli anni 80 oggi sono genitori…
Quando in una conversazione intorno ai videogiochi gli adulti parlano delle abitudini di gaming dei loro figli, molto spesso emergono le voci di chi non conosce per utilizzo diretto questo medium. I genitori videogiocatori sono aumentati ma emergono meno perché temono di essere stigmatizzati. Del resto i dati ci dicono che l’età media dei videogiocatori in Europa e in Italia è di circa 31 anni, e che in Italia i giocatori della fascia 15-24 anni sono numerosi quanto quelli della fascia 45-64 anni. Questo ci dice che i videogiocatori appassionati stanno invecchiando e quindi che, non solo cominciamo ad avere un numero sempre più significativo di genitori videogiocatori, ma anche che stanno avanzando i nonni videogiocatori. Risorse notevoli, visto che i bambini ritengono da sempre gli adulti di riferimento come un modello e oggi si rivolgono loro anche per problemi legati alle tecnologie e ai videogiochi. Insomma, genitori e nonni iniziano a essere a proprio agio col linguaggio videoludico e a usarlo con le nuove generazioni.
Quanto contribuiscono oggi i videogiochi alla costruzione dell’immaginario generazionale? Quanto stanno diventando una forma culturale identitaria?
Un po’ di tempo fa ho fatto un percorso di formazione sulla cultura geek e pop, dai manga ai videogiochi passando per giochi da tavolo e di ruolo. Questo mi ha permesso di imparare un linguaggio più ampio che – a testimonianza di quanto questa cultura faccia parte dell’immaginario collettivo – mi trovo sempre più spesso ad utilizzare quando faccio sedute di psicoterapia con i pazienti. L’esempio più semplice sono le serie tv, nei cui protagonisti anche in passato le persone potevano immedesimarsi, sentendosi legittimati a raccontarsi attraverso di essi. La stessa cosa può succedere con i videogiochi, anche se le persone si aprono meno sulla loro abitudine al gaming. Se però durante la seduta l’opportunità viene colta, videogiochi e serie tv diventano schermi di proiezione attraverso cui esprimere delle parti di sé in un modo che fa sentire più protetti.
Questo per dire che i videogiochi sono ormai stabilmente entrati nella nostra cultura e quotidianità, si pensi per esempio a come la moda recepisce oggi molti stimoli dall’estetica videoludica. Se non tutti gli adolescenti e tardo adolescenti sono videogiocatori, di contro la maggior parte di loro segue youtuber e streamer che vivono immersi nella cultura geek, perché videogiocano e guardano anime e serie tv di cui poi parlano nei loro video. E sappiamo tutti che youtuber, streamer e tiktoker sono dei modelli che i ragazzi seguono e che contribuiscono a costruire la loro identità.
Quali vere paure avverti nei genitori riguardo l’uso dei videogiochi da parte dei figli?
In relazione ai videogiochi, c’è una playlist di paure che è rimasta sempre più o meno la stessa. Adesso i genitori sono un po’ meno preoccupati in relazione al tempo trascorso davanti agli schermi dai figli, ma in generale possiamo elencare tra le paure più diffuse screen time, effetto dei contenuti violenti sul comportamento dei videogiocatori, dipendenza e monetizzazione. Io di recente ho cominciato a introdurre anche il tema della “tossicità”, ossia le manifestazioni di hate speech e cyberbullismo all’interno dell’ambiente del gaming, con dinamiche che spesso sono assimilabili ai meccanismi generali dei social media. Le paure dei genitori in merito al videoludico sono cicliche e dipendono dagli stimoli che arrivano dall’esterno. Se esce un nuovo videogioco, lo vediamo già in previsione dell’uscita del prossimo GTA, sorgono domande e discussioni, si accendono le paure. La più grossa comunque è quella della dipendenza. Anche se qui, confortata da una collega che lavora nei servizi per le dipendenze, posso dire che i casi veri e propri di questa patologia relativa al gaming sono pochi e dietro si annidano motivazioni e disturbi “altri”, come l’isolamento durante la pandemia.
Quali sono gli aspetti del videoludico che secondo te invece potrebbero essere importati anche in campo educativo?
Nel mio libro parlo della possibilità di sbagliare e del ruolo dell’errore nei videogiochi, che apre a dinamiche di apprendimento interessanti anche in campo educativo e meno improntate alla valutazione tradizionale. Altro aspetto importante è quello della collaborazione, il fatto che nel gioco online spesso venga chiesto ai giocatori di aggregarsi per raggiungere un obiettivo comune. La cultura occidentale è poco improntata a questo valore, che invece nei videogiochi cooperativi viene coltivato e allenato. Nei sistemi scolastici si inizia a parlare di formazione sulle life/soft skills e negli Stati Uniti da tempo si lavora sul “socio emotional learning” (apprendimento socio-emotivo) per allenare il senso critico e l’empatia dei ragazzi ricorrendo al videogioco. Ci sono attività extra curriculari, per esempio nelle biblioteche scolastiche, che ne prevedono l’utilizzo, oltre a coltivare le squadre di esport d’istituto.