Dipendenza dai videogiochi, per l’OMS è una malattia. Il commento della psicologa
L’Organizzazione Mondiale della Sanità (Oms) nel corso della 72a edizione della World Health Assembly a Ginevra ha formalmente indicato il “gaming disorder” (la dipendenza dai videogiochi) come malattia, inserendola nell’International Statistical Classification of Diseases and Related Health Problems (noto come ICD-11).
Circa un anno fa l’Oms, in modo ufficioso e a livello di proposta, aveva infatti inserito il gaming disorder tra le nuove forme di dipendenza, quindi aprendo la strada al suo riconoscimento come patologia. Se la comunità scientifica è d’accordo pressoché all’unanimità sulla possibile esistenza di abuso di gaming, l’opinione si spacca invece sulla necessità di introdurre un nuovo disturbo specifico.
I dubbi sono legati alla scarsità dei dati al momento disponibili, al basso di livello degli studi fatti sinora e alla mancanza di criteri oggettivi di valutazione, con il rischio di creare panico morale, ossia di creare un allarme senza evidenze provate, con conseguenze su individui, famiglie e comunità e stigma sociale dei gamers e dell’industria videoludica.
Cos’è il gaming disorder?
Il Gaming Disorder viene descritto come una “condizione di scarso controllo sulle attività di gaming”, una condizione in cui si dà “priorità al gaming rispetto ad altre attività quotidiane e interessi”, un “comportamento ingravescente nonostante le conseguenze negative”. Per considerarlo un disturbo, deve persistere per almeno 12 mesi e avere un impatto sulla vita personale, familiare, sociale, educativa e lavorativa della persona interessata.
Come sottolinea la psicologa Viola Nicolucci “i comportamenti di gaming problematico riguarderebbero solo l’1-3% della popolazione. Si raccomanda quindi di non patologizzare il comportamento dei gamers: i videogiochi sono un fenomeno culturale dell’epoca moderna e non sono la causa diretta di un eventuale disagio, piuttosto il comportamento di compensazione dello stesso. Tra le possibili cause di abuso di videogiochi ci sono la frustrazione di bisogni psicologici nell’ambiente di vita o l’esperienza di traumi. Sono questi gli aspetti da indagare e trattare. Disabituare la persona al gioco senza scoprire le ragioni dell’abuso, sposterebbe l’espressione del disagio su altri canali”.
Le ragioni dell’aggiunta del “gaming disorder” alla lista ICD-11 sembrano dipendere in definitiva dalla possibilità di fornire agli operatori sanitari la possibilità di identificare il disturbo e di predisporre gli interventi di prevenzione e trattamento più appropriati per curare tale patologia in modo efficace.
La prevenzione passa dalla conoscenza
Se dunque la possibilità che si sviluppi un’effettiva dipendenza dai videogiochi è limitata, importante è inquadrare correttamente il fenomeno videogiochi nell’ambito familiare per relazionarsi con essi in modo sano.
“Come ogni altro interesse, i videogiochi devono entrare nella dimensione famigliare” – prosegue la psicologa Nicolucci. “In questo modo i ragazzi si sentiranno appoggiati e la dimensione del videogioco rientrerà nella vita quotidiana, senza che crei isolamento. Giocare con i ragazzi rafforzerà il legame con i vostri figli e se non ve la sentite di esporvi e videogiocare insieme, sedetevi al loro fianco quando giocano e fategli domande per capire la loro passione e le loro scelte. Questo interesse li farà sentire amati. Stigmatizzare l’attività videoludica al contrario scatena nei ragazzi sentimenti di colpa e vergogna, nonché conflitto: ‘mi piace giocare ma i grandi dicono che fa male’, ‘i miei genitori dicono che i videogiochi fanno male ma poi li comprano’.
Integrare la dimensione videoludica in famiglia previene anche le ansie e gli eccessi di controllo. Non esistono regole sui tempi di esposizione valide per tutti e in modo costante. Più controllo viene esercitato dall’adulto, più il bambino/adolescente sente di perderne e nel tentativo di recuperare un margine di indipendenza e autonomia nasconderà i suoi comportamenti e l’uso dei videogames.