Perché vietare TikTok non risolve il rapporto tra social e minori
L’intervento del Garante della Privacy su TikTok in seguito alla tragica morte di una bambina di 10 anni di Palermo, tocca uno dei nodi nevralgici del rapporto tra minori e social media. L’Autorità ha vietato alla piattaforma di usare i “dati di utenti per i quali non sia stata accertata con sicurezza l’età anagrafica” – in Italia non ci si può iscrivere a un social prima dei 14 anni – e quindi ha di fatto bloccato il funzionamento dell’app del colosso cinese ByteDance, che non ha predisposto finora modalità per verificarli (come del resto non ha fatto alcuna piattaforma social). Mentre scriviamo, TikTok risulta accessibile ed è ancora possibile pubblicare contenuti.
Il caso TikTok
Già a dicembre il Garante aveva contestato a TikTok una serie di violazioni e una scarsa attenzione alla tutela dei minori, tanto da aver indotto la piattaforma a introdurre qualche giorno fa nuove funzionalità per proteggere la privacy degli under 18, insieme a una guida rivolta ai genitori, creata con UNC. Il social, che è uno dei preferiti tra i giovani e attira un pubblico composto anche da bambini al di sotto dei 10 anni, negli scorsi mesi è stato al centro di una serie di critiche e sospetti proprio per la scarsa trasparenza e attenzione alla tutela dei dati degli utenti. Pesano in questo caso anche fattori geopolitici e culturali, a partire da un’approccio diverso al concetto di privacy, dato che TikTok è di proprietà cinese, mentre le altre Big Tech sono americane.
Social media e tutela dei minori
Il problema dell’uso dei dati dei minori sui social media non riguarda però solo TikTok, ma tutti i social. Facebook qualche anno fa fu costretto a promettere di chiudere i profili di molti minori presenti sulle sue piattaforme, inclusa Instagram, dopo che un’inchiesta di Channel 4 aveva dimostrato come i moderatori fossero invitati a chiudere un occhio di fronte all’iscrizione di utenti sotto l’età richiesta per legge. Eppure, molti bambini continuano a popolare Instagram, Snapchat, YouTube, Twitch, solo per menzionarne alcuni (stanno meno su FB, che è considerato un ambiente ‘da vecchi’).
Mentre le imprese cercano di sfruttare commercialmente la presenza massiccia dei bambini online, le istituzioni si interrogano su come difenderli dai potenziali pericoli, proteggere la loro privacy e impedire che siano online, ben prima dell’età formalmente consentita. Benché la tecnologia proceda ad una velocità infinitamente superiore a quella delle norme, si sono fatti passi avanti, come il GDPR, che ha cercato di fissare dei paletti, elevando per esempio l’età di accesso ai social media e introducendo una serie di regole per la raccolta e l’uso delle informazioni. Per evitare che queste regole vengano facilmente aggirate, sia dagli utenti che dalle aziende, si potrebbero implementare efficacemente strumenti automatici come il riconoscimento facciale e la segmentazione dei profili in base agli interessi o più semplicemente un’iscrizione verificata tramite un documento e l’autorizzazione di un genitore. Le piattaforme, viste le capacità tecnologiche che hanno dimostrato di avere, potrebbero fare molto per individuare soluzioni per la verifica dell’età degli utenti. Insomma, serve una pressione da parte della società affinché i grandi colossi del web mostrino nei fatti un maggior rispetto verso i minori, adottando nuove regole di funzionamento.
Il ruolo dei genitori e dell’educazione digitale
Regole a parte, il tragico fatto di cronaca avvenuto a Palermo investe un secondo fronte, quello del ruolo dei genitori e dell’educazione digitale. Di fronte a casi così drammatici, attribuire la responsabilità ad una piattaforma rischia di essere una lettura riduttiva di una realtà di solito sempre più complessa. Qualche mese fa un altro ragazzino era purtroppo morto in circostanze che avevano fatto ricondurre anche in quel caso il gesto a una sfida online. Il rischio è individuare le piattaforme e gli uomini neri che le popolerebbero come responsabili di accadimenti dagli esiti drammatici che spesso sono invece spia di un disagio o di situazioni problematiche più ampie.
Nessuno di noi può realmente entrare nei singoli casi e non è certo questo il luogo in cui cercare di comprenderli. Tuttavia, bisogna evitare di scatenare un panico generico tra i genitori, che non contribuisce alla comprensione dei pericoli reali che i ragazzi affrontano online. È già successo con i casi della Blue Whale Challenge e di Jonathan Galindo.
Essere genitori è faticoso, soprattutto per i genitori di oggi alle prese con una dimensione online per cui non hanno consolidati modelli parentali di riferimento. Vietare tout court può essere altrettanto pericoloso che lasciare i bambini liberi di accedere a spazi virtuali che sono stati pensati per adulti e che ospitano dinamiche relazionali e contenuti non adatti ai minori.